Storie di cibo e di piagnoni.
«Quando te more, te naré a catarlo su col sestelin sbuso!»,
La frase sinistra pioveva su quel bambino che davanti a un piatto di minestra si mostrava inappetente, si lamentava, si contorceva, ostentava assoluta immobilità, chiudendo ermeticamente denti e labbra con aria di sfida.
Certo però che quelle parole, usate da innumerevoli mamme e nonne del luogo, non lasciavano del tutto indifferenti i bambini di un tempo e non è escluso che ottengano ancora un qualche risultato; tanto più che fanciulli fantasiosi e creduloni ci sono sempre stati per cui bastava poco per immaginarsi a camminare su una strada lunghissima, senza fine né inizio, e con certi sassi che fanno male ai piedi, costretti a raccogliere tutto il cibo che durante la vita «l'era sta butà ìa» perché ci si era rifiutati di mangiarlo.
Ma non finiva lì: la mano pallida e stanca prendeva da terra il cibo e Io riponeva in un cestino di paglia senza fondo, il «sestelin sbuso» appunto; la punizione sarebbe stata così eterna. Alla fine, nessuna meraviglia se qualche cucchiaiata riusciva ad entrare in bocca facilmente; c'erano anzi buone possibilità che il piatto venisse completamente ripulito.
Molto fiorente e diffusa è sempre stata l'attività di cercare espedienti vari ed efficaci, per lo più racconti, per scongiurare o bloccare lamentele e disapprovazione nei confronti del cibo preparato.
Il bambino scrutava attentamente il contenuto del piatto; era fiducioso, era pensieroso, cercava di convincersi, ma alla fine la domanda alla mamma sorse spontanea: «Mama, ma icio nol ga mia i oci!».
E la mamma: «Tasi e magna che I'é bon!».
Di nuovo il figlioletto: «Mama, ma icio nol ga mia le rece!».
«Tasi e magna che l'é bon» replicava la mamma e così via di seguito.
«Mama, icio nol ga mia la coa!»; «Tasi e magna che I'é bon!»...
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